Immersa nella suggestiva valle tra il Monte San Vicino e l’altopiano del Canfaito, l’Abbazia di Santa Maria di Valfucina rappresenta un importante punto di riferimento storico, spirituale e paesaggistico delle Marche. Oggi rimane poco dell’antico complesso monastico, ma la sua cripta romanica, sopravvissuta a incendi, saccheggi e terremoti, continua a raccontare una storia millenaria di fede e cultura.
Origini e massimo splendore
Fondata tra l’VIII e il IX secolo, l’abbazia si sviluppò come centro benedettino alle pendici del Monte San Vicino, in una valle fertile e strategica. Nel periodo compreso tra il 1227 e il 1236, raggiunse il massimo splendore, con possedimenti che si estendevano su oltre ventinove chiese e cappelle distribuite nei territori di Matelica, San Severino, Cingoli, Treia, Jesi, Osimo, Recanati e persino Numana. Grazie a una sapiente organizzazione agricola e religiosa, i monaci contribuirono alla bonifica e al ripopolamento di terreni devastati dalle invasioni barbariche.
A documentare questa fioritura rimangono 398 preziose pergamene oggi conservate negli archivi di San Severino Marche, a testimonianza della vivacità economica e gestionale del complesso abbaziale.
Declino e distruzioni
A metà del Duecento, l’abbazia fu teatro di gravi eventi che segnarono l’inizio del suo declino: un violento saccheggio da parte dei conti della Truschia e, poco dopo, un incendio devastante (1250) che colpì duramente il monastero e la sua roccaforte difensiva, il Castello di Elcito. A questi seguirono decenni di difficoltà economiche, contrazione dei possedimenti, e continui litigi giudiziari con il Comune di San Severino e altre entità ecclesiastiche.
Nel tentativo di salvarla, il vescovo Berardo nel 1327 incorporò l’abbazia di S. Mariano in Valle Fabiana, ma gli effetti furono temporanei. Nemmeno gli interventi della Camera Apostolica (1427) e del pontefice Nicolò V (1449) riuscirono ad arrestarne il decadimento. Nel 1489, ormai ridotta a pochi monaci, l’abbazia fu affidata in commenda alla Collegiata di San Severino.
Il colpo di grazia arrivò nel 1799, quando un potente terremoto rase al suolo la chiesa e il monastero. Della struttura originaria restò solo la cripta, miracolosamente scampata alla distruzione.
La cripta romanica: cuore sopravvissuto
La cripta è oggi il gioiello superstite dell’intero complesso. Vi si accede tramite un piccolo ingresso laterale e si presenta a tre navate, coperte da volte a crociera in mattoni. Le navate sono scandite da colonne in pietra che sorreggono dodici capitelli scolpiti in pietra calcarea bianca, decorati con motivi geometrici e zoomorfi, tra cui i simboli dei quattro evangelisti sull’abside. Gli studiosi collocano la loro realizzazione tra l’XI e il XII secolo, riconoscendovi influenze bizantine e longobarde.
Per un certo periodo la cripta venne utilizzata come luogo di sepoltura e poi interrata; è stata riportata alla luce solo in tempi recenti, restituendo al territorio un prezioso esempio di architettura e arte romanica.
Un’eredità da riscoprire
Oggi, nel punto in cui sorgeva l’antica abbazia, si trova una cappellina eretta nel 1800 e ricostruita nel 1958, inglobando parte dei materiali originari e decorata con lapidi commemorative. L’intero complesso è circondato da una azienda agricola, a riprova della vocazione rurale che per secoli aveva caratterizzato l’attività dei monaci benedettini.
Non distante, su una rupe che domina le valli di Valfucina e San Clemente, si erge ancora il Castello di Elcito, un tempo fortilizio strategico dell’abbazia e rifugio per i contadini al suo servizio.
L’Abbazia di Valfucina, pur ridotta oggi a pochi resti fisici, conserva un’eredità immateriale di enorme valore storico e spirituale, profondamente intrecciata alla storia del territorio marchigiano.