Il trabaccolo, re dell’Adriatico che sfidava le onde: La Romagna, la costa, il mare. Bellaria-Igea Marina, Borgo San Giuliano, Cattolica, Cervia e Comacchio sono i principali borghi marinari della regione dove l’arte della pesca e della navigazione hanno raggiunto l’apice. Un legame unico, quello tra questa terra e il suo Adriatico, un incontro che ben si racconta attraverso le tradizioni marinare e i mestieri a esse connessi. Si tratta di usanze antiche, apparentemente perdute nel tempo ma che al contrario sono vive nel presente. Ne è un esempio la pesca “alla tratta”, un’attività corale tipica della zona, di Rimini in particolare, che rappresenta un’occasione di condivisione per tutta la comunità di pescatori. Così come di grande fascino è la cultura delle vele di Cervia. Qui ogni famiglia possedeva una sua imbarcazione con una vela, appunto, come simbolo della famiglia stessa che serviva a riconoscere la barca al rientro, cosicché fosse immediato identificarla una volta in porto. Era insomma un modo per dire “Siamo tornati sani e salvi”.
Espressione della tradizione marinara della Romagna sono le imbarcazioni: ciascuna ha una sua anima, un suo perché. Per scoprirne le curiosità, basta recarsi presso il museo galleggiante di Cesenatico, ossia il Museo della Marineria. Questo luogo custodisce la memoria dei flutti dell’alto Adriatico, qui sono esposte le classiche barche da pesca e da trasporto a propulsione velica utilizzate fino ai primi del Novecento. Il visitatore non soltanto può imparare il sapore della vita della gente di mare ma ha la possibilità di mettersi in gioco in prima persona, magari ammainando una vela o apprendendo come fare una manovra per salpare verso l’orizzonte. Il percorso conduce in primis verso la sezione “a terra” allestita all’interno di un padiglione costruito come un antico arsenale. Entrando, al centro della scena si palesa un imponente trabaccolo. Parliamo di un’imbarcazione sia da pesca sia da carico dotata di due alberi muniti di vela al terzo, ma qual è la sua storia? Sveliamone i segreti.
C’era una volta il trabaccolo, il re dell’Adriatico. A volerne dare una definizione, non esistono parole migliori di quelle scelte da Alberto Guglielmotti, erudito storico delle imprese marinare italiane: «Piccolo bastimento dei porti adriatici, usato per la pesca e poi per il traffico. Scafo tozzo e rigonfio, fondo piatto e largo, ruote sublimi, coverta allungata, timone enorme: due alberi a calcese, due mazze per verghe, due vele auriche e un polaccone. Manovra facile, poca gente, portata di venti infino a centocinquanta tonnellate». Una descrizione aulica che ben tratteggia la personalità di questa nave, magistralmente capace di domare il mare. La sua origine è incerta, la teoria più accreditata è quella di chi la considera una derivazione della nave “tonda” del Medioevo, anche se le prime fonti in cui si menzionano i trabaccoli risalgono all’inizio del Settecento. Per circa due secoli queste imbarcazioni hanno spostato le merci tra i porti dell’Adriatico, piene tanto in stiva quanto sul ponte e guidate da comandanti dall’abilità leggendaria.
In Romagna lo chiamavano – e lo chiamano tuttora -“barchet”, ossia la versione da pesca del trabaccolo. Gli elementi distintivi, fin dall’inizio, erano gli stessi: ampia prua “a petto d’anatra”, scafo pitturato con sobrietà, vele con cromatismi uniformi e soprattutto – dettaglio inconfondibile – due grandi occhi stilizzati sul moscone. A seconda del colore, erano una sorta di firma dell’armatore, ma avevano anche un contenuto apotropaico contro la malasorte. Il trabaccolo riuscì a sedurre perfino illustri pittori vedutisti come il Canaletto, il quale lo immortalò nelle sue tele. La fortuna di questa barca si diffuse fino al Mediterraneo toccando i litorali della Sicilia, della Grecia e pare che la sua fama si spinse addirittura in Nuova Caledonia. La sua stella ha brillato fino al secondo dopoguerra quando i trabaccoli vennero sfruttati per il trasporto della sabbia ma poi presto abbandonati negli anni del boom economico. Molti esemplari andarono perduti, ma quelli sopravvissuti costituiscono oggi un patrimonio di inestimabile valore, puro Dna di un popolo che da sempre sa affrontare le onde.
Di Gaia Guarino