Come i dialetti e i piatti tipici, anche le danze tradizionali sono l’espressione di un territorio e ne rappresentano l’aspetto più misterioso e simbolico. La loro origine, infatti, si perde nella notte dei tempi, quando ogni gesto e ogni passo avevano un significato preciso, che si trattasse di un rituale di corteggiamento, di una sfida, della celebrazione di un raccolto, di un rito propiziatorio o di un atto di seduzione. Relegate per decenni quasi esclusivamente alle feste popolari e alla memoria di pochi appassionati, oggi i balli folkloristici stanno vivendo una seconda primavera, complice anche la musica leggera, che non di rado ha recentemente preso in prestito dalle tradizioni regionali strumenti, frasi musicali e melodie. Se la pizzica è forse la più famosa delle danze popolari italiane e il festival che la vede protagonista ogni estate in Salento – e che culmina con “La notte della Taranta” – richiama decine di migliaia di visitatori da tutto il mondo, l’Italia vanta in realtà un patrimonio danzereccio ricchissimo e variegato. Proviamo allora a disegnare una mappa della Penisola… a passo di danza – tradizionale – of course.
Se pensiamo al nord Italia, la mente va quasi subito ai coreografici balli ladini e tirolesi del Trentino, del Friuli e dell’Alto Adige: alzi la mano chi non ha provato almeno una volta a intonare lo jodel e contemporaneamente a riprodurre la sequenza di battimani, schiaffi e salti dei corpulenti ma agilissimi ballerini in calzoni corti e calzettoni; quello che non tutti sanno è che, quelli che oggi chiamiamo Schuhplatteln (letteralmente “battere le scarpe”) o Schuhplattln nella variante altoatesina, sono una serie di danze codificate nel 1850 in Baviera ma risalenti addirittura al 1050, quando si trattava di un ballo di corteggiamento, allora come oggi per soli uomini. Ha invece probabili origini slave la Furlana, un’altra danza popolare friulana – come lascia intendere il nome – che conobbe grande diffusione prima nei palazzi veneziani e poi nientemeno che alla corte di Luigi XIV in Francia. E strizzano l’occhio proprio alle tradizioni d’Oltralpe le danze folkloristiche del versante italiano di nord-ovest: in Piemonte, infatti, sono diffusi i balli delle Valli Occitane, ritmati da armonica a bocca, clarinetto, violino e fisarmonica. Una curiosità: da queste parti, e precisamente in Monferrato, è nata anche la monferrina, oggi più nota come “manfrina”, parola entrata nel parlato comune con il significato di discorso tirato per le lunghe o messinscena per ottenere qualcosa.
Sono avvolti dal fascino della storia i balli popolari che caratterizzano le regioni centrali del Belpaese e di alcuni non si conoscono neppure le origini certe. È il caso della famosissima giga, ballata in numerose varianti soprattutto in Emilia-Romagna (dove è un ballo di corteggiamento danzato principalmente in coppia): se le fonti testimoniano la sua diffusione come danza corale o campestre già nel XVI secolo in Irlanda, Inghilterra e Scozia, l’etimologia del nome tradisce radici ben più antiche, risalenti addirittura ai vichinghi. Risale al Medioevo anche il popolare trescone, citato addirittura da Dante e da Boccaccio e diffuso in Toscana, Romagna e Umbria; misterioso è tuttavia il significato del nome, che potrebbe riferirsi alla “tresca” amorosa o derivare invece dall’antico germanico “dresken”, trebbiare, associando il passo di danza al modo in cui i contadini staccavano i chicchi di grano dalle spighe nelle aie. Deriva addirittura dal “saltatio”, il ballo più diffuso nell’antica Roma, il saltarello, ballato – con le dovute varianti – nel Lazio, nella Marche, in Molise, Umbria e in Abruzzo e ripreso addirittura dalla musica colta di Mendelssohn.
Tamburi, tamburelli e percussioni varie; ritmi frenetici, quasi ipnotici; gesti rituali e simbolici; movimenti convulsi e sincopati. Sono gli elementi, che a vario grado, caratterizzano le danze più celebri del sud Italia, le stesse che hanno portato la loro fama oltre i confini nazionali. A iniziare dalla tarantella – nata probabilmente a Taranto, diventata poi l’emblema del Regno delle Due Sicilie e oggi diffusa con caratteristiche differenti in tutto il Sud –, per continuare con due tra le sue forme più note, la pizzica salentina e la campana tammurriata (il cui nome deriva, appunto, da “tammorra”, tamburo). Se il riferimento alla tarantola è chiaro, non stupisce che queste danze nei secoli passati venissero usate nei rituali terapeutici del tarantismo, per guarire chi era stato, presumibilmente, morsicato dal terribile ragno. In tempi più recenti, invece, soprattutto la pizzica ha valenze di corteggiamento se ballata in coppia e di competizione se ballata da due uomini. E a proposito di corteggiamento, se è vero che in Sicilia c’è una tarantella per ogni occasione, particolarmente scenografica è “U Nozzu”, la tarantella che gli uomini ballano per corteggiare la propria amata. Infine, merita un cenno “Su ballu sardu”, il ballo sardo, un insieme di danze derivanti probabilmente da antichissime cerimonie sacre preistoriche nate per propiziare una caccia abbondante o un ricco raccolto, che ancora oggi vengono spesso ballate, con grande maestria tecnica, in rituali cerchi intorno a un fuoco.