C’è un angolo di Lucania dove sopravvive una lingua misteriosa, indecifrabile alle orecchie dei forestieri. Un angolo di sud Italia antico e vibrante, dove un popolo è riuscito a tramandare i segreti di tradizioni lontane, dall’origine esotica. San Costantino Albanese, o Shën Kostandini in lingua arbëreshë, così come il vicino San Paolo, Shën Pali, ad appena dieci chilometri di distanza, sono due borghi della provincia di Potenza, immersi nel cuore del Parco del Pollino, rappresentativi della cultura arbëreshë. La loro storia, che racconta di migrazioni e valori custoditi con cura, ha coinciso con l’arrivo in Italia, intorno al 1534, degli esuli provenienti dalla greca Morea dopo l’occupazione dell’Albania da parte degli ottomani. Il re di Napoli li accolse e li destinò in varie parti del regno, tra cui il versante orientale del Pollino. Per secoli trascorsero una vita appartata, quasi d’isolamento, conservando tradizioni e consuetudini dei loro antenati e, soprattutto, una lingua arcaica, non solo codice comunicativo, ma potentissimo elemento identitario e di coesione.
Immerso nella Valle del Sarmento, avvolto tra il profumo di ginestre e i colori tipici del Parco Nazionale del Pollino, San Costantino Albanese è un grazioso borgo a circa 650 metri sul livello del mare. Qui tutto - dai nomi delle strade alla parlata della gente fino ai riti religiosi - racconta del passaggio e dell’influenza delle popolazioni arbëreshë arrivate nel Cinquecento. Al centro del borgo sorge la Chiesa madre dedicata ai Santi Costantino ed Elena. L'edificio a tre navate, di stile barocco, risale agli inizi del Seicento ma è nel 1845 che furono realizzate le maioliche dai colori vivaci della facciata, che raffigurano i santi Costantino (al centro), Pietro (sulla sinistra) e Paolo (sulla destra). In pieno centro storico troviamo poi l’Etnomuseo della comunità arbëreshë del borgo, che ospita la biblioteca e la mostra iconografica del famoso mosaicista Josif Droboniku. Salendo ancora verso ovest, seminascosto tra cerri e ulivi, si trova il Santuario della Madonna della Stella, vero cuore religioso della comunità di San Costantino.
Il tempo non è riuscito a scalfire le usanze della cultura arbëreshë, che si rinnovano e rivivono ogni anno, sempre vissute con grande trasporto. Una delle più sentite e misteriose è la ‘Festa della Madonna della Stella’, chiamata così perché, secondo i racconti della tradizione orale, la Vergine si manifestò a una pastorella attraverso un fascio di luce. La festa si celebra la seconda domenica di maggio e unisce religiosità e folclore. La sacra immagine della Madonna esce dalla chiesa e, prima di procedere alla volta del santuario, assiste all’accensione dei ‘nusazit’, caratteristici pupazzi di cartapesta raffiguranti due sposini (i nusazit, appunto) in costume albanese, due fabbri e il diavolo, quest’ultimo rappresentato con due facce, quattro corna e i piedi a forma di zoccolo di cavallo. I primi a essere accesi sono i fabbri intenti a lavorare un’incudine, poi vengono innescate le micce degli sposi e infine il diavolo. La tradizione dei nusazit non ha altri esempi in Italia ed è per questo che ha sempre attirato la curiosità di molti turisti.
Chi non ha mai sognato di volare? Di sollevarsi da terra e arrivare come Icaro a toccare il cielo con un dito e osservare il mondo da un’altra prospettiva? A San Costantino Albanese quello di volare è un sogno che chi ama l’avventura, o semplicemente vuole provare almeno una volta nella vita l’esperienza romantica di librarsi nell’aria, può trasformare in realtà. Il ‘Volo dell’aquila’ è una delle attrazioni più conosciute della Lucania, apprezzata da chi ama gli sport adrenalinici, ma praticabile anche da famiglie con bambini di età superiore ai 10 anni. Su un deltaplano a quattro posti fissato a un cavo d’acciaio si può viaggiare sospesi a una velocità di circa ottanta chilometri orari lungo un percorso panoramico di 1.200 metri. L’unica regola è non chiudere mai gli occhi e provare il piacere di sentirsi liberi ammirando le vette del Pollino, i boschi rigogliosi e i tetti del borgo di San Costantino. E così sentirsi più vicini alle aquile e ai falchi che presidiano questi luoghi.
“Mirë sa né erdhtit”, benvenuti. È così che gli anziani seduti sugli usci di casa accolgono chi arriva a San Paolo Albanese, il borgo più piccolo della Basilicata e uno dei cinque centri della Lucania dove si custodisce e tramanda la cultura arbëreshë. La sua fondazione è legata all’arrivo, attorno al Cinquecento, dei profughi provenienti dall’Albania che si insediarono sul declivio del Monte Carnara. San Paolo è stato costruito proprio su questo crinale, a 840 metri sul livello del mare, completamente immerso nel paesaggio rurale della Valle del Sarmento. Vissuti fino agli inizi del XX secolo quasi in totale isolamento, i sanpaolesi (Shën Palit in dialetto) hanno difeso strenuamente le proprie abitudini, il loro modo di mantenere le relazioni umane, vivere le emozioni collettive e partecipare alle feste. E a distanza di cinque secoli conservano ancora la lingua delle origini, l’arbëreshë, la liturgia greco-bizantina nelle funzioni religiose e i rituali matrimoniali e funebri della terra d’origine.
Usi e costumi della tradizione albanese sono i protagonisti di un interessante museo: il Museo della Cultura Arbëreshë di San Paolo Albanese. Nato come mostra agropastorale nel 1975, negli anni si è trasformato in un contenitore di memorie dove l’identità del borgo viene valorizzata e promossa. Qui, in spazi ricavati dalle case contadine abbandonate del centro storico, si possono osservare oggetti di vita quotidiana, metodi della lavorazione della ginestra, un tempo utilizzata per produrre tessuti, e i vivacissimi abiti dai colletti di pizzo bianco che le donne nei giorni di festa indossano ancora. Tradizione arbëreshë, rituali di fertilità contadina e devozione cristiana si fondono invece nel ‘Gioco della falce’, una danza propiziatoria che, ogni 16 agosto, abitanti nelle vesti di mietitori ripetono durante la festa del patrono, San Rocco, la cui statua viene portata in processione preceduta dalla “himunea” un piccolo trono fatto di spighe di grano e decorato con fiori e nastri.
Un tempo, racconta una leggenda di San Paolo, i bimbi appena nati venivano portati sul Monte Carnara perché dall’altura potessero scorgere il Mar Ionio da cui provenivano i loro avi, mentre le madri intonavano un dolce canto. Con i suoi 1.200 metri d’altezza il monte Carnara è da sempre il testimone benevolo della vita del borgo. Sui suoi pendii, a partire dalla seconda metà del mese di maggio, si può ammirare la “Banxhurna ka Karnara”, una peonia selvatica dai petali purpurei che cresce solo in quest’angolo di Basilicata. Un fiore dalla prorompente bellezza che nei canti e negli aneddoti popolari viene da sempre associato alla bellezza della donna. Ai piedi del monte, nei terreni un tempo coltivati a frumento, orzo e avena, nasce invece la ginestra, “sparta” in dialetto arbëreshë: una pianta spontanea dai fiori gialli profumatissimi, dai cui lunghi e ramificati giunchi gli abitanti del borgo hanno per secoli ottenuto un filato grezzo simile al lino utilizzato per realizzare sacchi, bisacce e strofinacci.
La cucina arbëreshë è fatta di ricette semplici, spesso associate a feste o ricorrenze religiose particolari. La "shtridhla" o "shtridhelat" è una pasta lunga tirata a mano che il Ministero delle Politiche Agricole ha inserito nella lista dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali della Basilicata. Prende forma da materie prime povere quali acqua tiepida, farina e olio e di solito viene condita con ceci e fagioli. Un gustoso prodotto tradizionale di San Paolo Albanese è la “petulla”, una morbida frittella farcita con formaggio o salumi, che viene consumata in occasione di feste familiari o incontri conviviali tra amici. Il “cugliaccio”, in dialetto albanese "kulac" è invece un tipico dolce rustico che ancora viene prodotto a San Costantino Albanese in occasione delle feste nuziali. La forma, circolare, richiama quella di quattro braccia intrecciate e la sua superficie viene decorata con simboli benauguranti: un nido, simbolo della casa, due uccelli che lo difendono e rappresentano la nuova coppia, e due serpenti che raffigurano le avversità da affrontare.
Cersosimo è un intreccio millenario di storia e natura incontaminata. Un piccolo gioiello affacciato sulla vallata del fiume Sarmento, nel cuore del parco del Pollino, le cui origini rimandano a un tempo lontano, al confine con la storia. La parte più antica del borgo si estende su una collina, detta il Castello, che ha restituito un’acropoli inghirlandata dagli ulivi che nei decenni ha attratto la curiosità di storici e studiosi, ma che, sebbene sia le tra aree archeologiche più interessanti della Basilicata, ancora non è riuscita a essere raccontata e a disvelare tutti i suoi segreti. Oltre alle mura ciclopiche perimetrali del V-VI secolo a.C., negli anni è stato portato alla luce anche vasellame risalente all’età del bronzo, che dà all’area il primato di essere tra i primi territori della Lucania abitati dall’uomo. In prossimità dell’ingresso del borgo si possono invece ammirare i resti, questi databili attorno all’XI secolo, del monastero bizantino di Kyr-Zosimo, l’abate (Kyr in greco) fondatore del convento da cui discenderebbe il nome di Cersosimo.
Il campanile giallo tenue della chiesa parrocchiale, i portali di pietra scolpiti dalle maestranze locali, accoglienti bar dove conversare con gli amici, strade e piazze che diventano la prosecuzione della vita di casa. Passeggiare tra le vie di Cersosimo significa fare un viaggio nel passato, immergersi in una quotidianità lontana dalla vita frenetica, dove il contatto con la natura è ancora saldo. Cersosimo emana un fascino discreto, quello di una terra umile ma allo stesso tempo ricca, dove è facile lasciarsi coccolare dagli sguardi curiosi ma accoglienti di chi vi abita e ne custodisce le tradizioni. Un borgo dove il tempo continua a essere scandito dall’alternarsi delle stagioni e delle feste religiose, delle quali la più sentita è quella in onore della Madonna di Costantinopoli, che si celebra il 16 maggio. È allora che la statua lignea della Vergine, un’effigie risalente alla seconda metà del Cinquecento, viene portata a spalla per le vie del borgo, accompagnata dalla devozione degli abitanti.
Il Parco Nazionale del Pollino è un’area verde incontaminata a cavallo tra la Basilicata e la Calabria, un enorme polmone verde di 192mila ettari, dal 2015 patrimonio naturale dell’Unesco. Questo è il regno dei pini loricati, alberi maestosi e contorti che conferiscono al paesaggio un aspetto fiabesco da romanzo fantasy. Il loro nome deriva dalla corteccia spessissima che ricopre il tronco e ricorda l’armatura dei soldati romani, la lorica. Quando muoiono, perdono lentamente il loro scudo difensivo e, scolorando verso il bianco, restano in piedi per anni, come dei monumenti della natura dalle forme inquietanti, scolpite dalle intemperie. Questi fossili viventi sono visibili soprattutto sulla cima della Serra di Crispo, denominata il ‘Giardino degli Dei’, vero giardino naturale punteggiato di esemplari quasi millenari, superstiti di una specie che era diffusissima in un passato remoto e che oggi sopravvivono sono nel Parco del Pollino e in alcune aree dei Balcani.
Il Pollino è una palestra a cielo aperto, un’area protetta - la più estesa d’Italia - dove gole selvagge e pianori erbosi si alternano a vallate ammantate di fitti boschi di faggi, abeti argentati e castagni. Gli amanti delle attività outdoor possono scegliere tra escursioni a piedi o in mountain bike, rafting e kayak lungo il fiume Lao, arrampicate sulle vette più selvagge, alcune superiori ai 2mila metri, e passeggiate a cavallo. Di grande interesse escursionistico sono ad esempio i boschi a ridosso del borgo di San Costantino Albanese, da cui si può raggiungere il suggestivo punto panoramico Tumbarino e qui ammirare la valle Rubbio con la sua spettacolare distesa di querce, agrifogli, cerri e roverelle. Percorrendo sentieri altrettanto affascinanti si può arrivare alla Sorgente Catusa, a quota 1.300 metri, circondata da enormi massi ricoperti di muschio e faggi secolari. Dalla località Acquafredda, sempre nel territorio di San Costantino, si può partire alla volta della Timpa di Pietrasasso, uno sperone di roccia di origine lavica, dalla curiosa forma a punta.